Dopo ventotto anni di vessazioni e botte trova il coraggio di denunciare il marito

Dopo ventotto anni di vessazioni e botte trova il coraggio di denunciare il marito

28 anni di vessazioni, insulti, umiliazioni, botte. Ventotto anni di terrore, chiuso dentro le mura di casa e nascosto dietro gli scuri, sopportato in silenzio. Perché Cerasi, piccola frazione in provincia di Reggio, è piccola, la gente vede, parla, non è bene, non è giusto. Questo pensava Lucia Morgante, tamponandosi le ferite e sopportando schiaffi, pugni e calci. Questo l’ha condannata a decenni di barbarie. Perché per lei,  il matrimonio con Francesco Cannizzaro è stato solo questo. Dietro il freddo linguaggio burocratico dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Adriana Trapani che ha spedito l’uomo dietro le sbarre per maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate c’è tutto il dolore e la disperazione di una donna che solo dopo quasi trent’anni di vessazioni ha trovato il coraggio di chiedere aiuto. O meglio, è stata costretta a farlo dalla denuncia della figlia Caterina, per anni testimone delle violenze subite dalla madre e lei stessa vittima della furia bestiale del padre. Fino a quando ha deciso di dire basta.
Basta a quelle accuse ingiustificate che si trasformavano in schiaffi e pugni, basta a quelle esplosioni di rabbia che sul viso e sul corpo della madre si trasformavano in lividi e cicatrici, basta ad aggressioni che aumentavano in misura direttamente proporzionale ai problemi che l’uomo aveva sul lavoro, basta a quella violenza psicologica continua esercitata dal padre, arrivato persino a insinuare l’esistenza di un relazione fra il compagno della ragazza, Giovanni, e la madre di lei. L’11 marzo, Caterina ha fatto quello che per decenni prima la madre e poi lei non avevano mai pensato di fare: chiedere aiuto.

IL PUNTO DI NON RITORNO
Era l’alba di una notte da incubo. Da settimane, le violenze che Francesco Cannizzaro esercitava sulla compagna erano divenute quotidiane, incessanti. Un calvario di botte e insulti che iniziava all’alba e terminava solo all’ora di andare a dormire. Ma quell’11 marzo neanche la notte è stato sinonimo di tregua. Intorno alle 4, l’uomo – hanno ricostruito gli inquirenti – si è svegliato e senza alcun motivo ha iniziato a minacciare Lucia che dormiva accanto a lui. «Vattene che altrimenti ti faccio arrivare il sangue sul tetto», le urlava. Ma quella notte a colpire la donna non sono state solo parole e insulti insensati. Annoteranno infatti qualche ora dopo i carabinieri, chiamati da Caterina, la figlia della donna: «Quindi, all'improvviso si alzava e prendeva un bastone di legno agitandolo contro la denunciante. La donna, a quel punto, si alzava dal letto ma il marito faceva in tempo a raggiungerla e la prendeva per i capelli, nel mentre le diceva "t'ammazzo, ti faccio vedere chi è tuo marito. E vediamo chi è il tuo amante"».
Per Lucia Morgante è stato troppo. Troppa la paura di morire sotto le mani di quell’uomo con cui per trent’anni ha diviso la casa e la vita, troppo il terrore che in preda a un raptus, quello che avrebbe dovuto essere il suo compagno, la picchiasse fino ad ammazzarla. Quella notte Lucia è scappata in giardino, a dormire con gli animali. Solo attorno alle sei e mezza, quando sapeva di non trovare nessuno in casa, la donna ha trovato il coraggio di fare rientro. Ma la porta era chiusa, la serratura cambiata. L’incubo non era finito. Lucia chiede aiuto alla figlia ed è allora che Caterina decide di dire basta, di spezzare il circolo vizioso di insulti e violenze che ha regolato la vita della madre e la sua. Sarà di fronte ai carabinieri, immediatamente intervenuti dopo la chiamata della ragazza, che Lucia Morgante deciderà infine di raccontare il suo calvario lungo ventotto anni.

IL LUNGO CALVARIO DELLE DONNE DELLA FAMIGLIA CANNIZZARO
«Già dopo qualche mese dalla celebrazione del matrimonio – ricostruisce con fredda precisione l’ordinanza di custodia cautelare che richiama quella denuncia – l'uomo aveva iniziato ad avere comportamenti piuttosto violenti nei suoi confronti. In particolare, la picchiava molto spesso adducendo a scusa motivi di asserita quanto, a suo dire, di immotivata gelosia. Ad esempio, quando la moglie aveva il ciclo mestruale, l'odierno indagato la picchiava perché riteneva che le perdite di sangue erano dovute a veementi rapporti sessuali extraconiugali; quando, invece, la consorte aveva dei ritardi, la picchiava perché pensava che fosse rimasta incinta di qualcuno. La situazione ritornava quasi alla normalità quando, nell'anno 1995 circa, l'uomo iniziava lavorare come operaio forestale. Purtuttavia da circa tre anni la situazione degenerava di nuovo e, anzi, assumeva tratti ancor più violenti e brutali». A far esplodere nuovamente la follia di Cannizzaro, la decisione di accogliere in casa la figlia Caterina e il compagno Ioan Razvan Passarella – in famiglia, Giovanni – divenuto catalizzatore delle folli gelosie dell’uomo. «Le violenze verbali – annotano i carabinieri dopo aver raccolto la testimonianza della donna – avevano un frequenza pressocchè quotidiana; in particolare, in un'occasione l'uomo proferiva nei confronti della moglie la seguente frase: "Buttana, troia, ti corichi con tutto il paese. Te la fai con Giovanni, con il postino, con i parenti". Le violenze fisiche invece, avvenivano con cadenza bisettimanale, nella specie il Cannizzaro la picchiava su tutto il corpo con le mani, con i piedi, le tirava i capelli e talvolta usava un bastone di legno».
Dietro la rigidità del linguaggio burocratico c’è l’inferno personale di una donna che per decenni ha sopportato in silenzio, senza denunciare, senza neanche farsi curare quando gli eccessi del marito le lasciavano sul corpo gravi ferite. È la figlia Caterina parlando con gli investigatori, a ricordare come circa un anno prima fosse stata costretta a soccorrere la donna, terrorizzata perché nel corso dell’ultimo alterco il marito le aveva quasi staccato il lobo dell’orecchio. E Caterina sapeva quanto pesanti fossero le mani del padre. Le ha conosciute fin da piccola, quando di fronte alle esplosioni di violenza cercava solo di «nascondersi e fuggire». Le ha comprese da donna, quando della madre è divenuta confidente. A lei ricorreva Lucia Morgante, spezzata dalle violenze del marito. A lei e al fratello Annunziato chiedeva aiuto e soccorso quando le ferite erano troppo gravi per curarsi da sola. Ma se dalla figlia trovava conforto e sostegno – unite entrambe dalla comune condizione di vittime della violenza ingiustificata dell’uomo – diversa era la reazione di Annunziato, anche lui cresciuto a pane e botte, ma – lascia intendere il gip – forse ormai tanto assuefatto a quella violenza da giustificarla.

L'EREDITA'
Ed è così che di fronte agli inquirenti, pur non negando le violenze che il padre ha per anni inflitto tanto alla madre e alla sorella, come a lui stesso, non sembra mostrare alcun biasimo. Anzi. Sottolinea il gip: «Una considerazione merita approfondimento. Il Cannizzaro Annunziato, figlio della coppia, seppur non smentisce l'effettività del contegno frequentemente aggressivo del padre sia nei confronti della madre che ne confronti di loro figli, sembra non provare alcun biasimo per il padre. Anzi, più volte, cerca di trovare plausibili giustificazioni sottese alla violenza del genitore. In particolare, sintomatica in tal senso è l'affermazione: «Devo dire che la causa di questo tipo di rapporto è da attribuire ad entrambi, in quanto mia madre, da sempre, contribuisce poco al buon andamento della casa, lasciando spesso la casa sporca, avendo poche attenzioni per mio padre, e ascoltandolo poco» e ancora «succedeva a volte che mio padre alzava le mani nei miei confronti, ma devo ammettere che il tutto era dovuto a comportamenti sbagliati da parte mia, e quindi le reputo a fin di bene ed a scopo educativo».
La violenza per Annunziato Cannizzaro è normale, anzi quasi utile. Serve a formare, a educare. È questa l’eredità lasciatagli da un’infanzia e un’adolescenza scandite dagli schiaffi del genitore. Circostanza che non sfugge al gip Trapani, che sottolinea: «Costretto a vivere in un ambiente domestico tutt'altro che sereno e formativo, il Cannizzaro Annunziato è cresciuto con il convincimento che fosse giusto e legittimo fare uso della forza fisica per ottenere ciò che si considera dovuto. Solo simili considerazioni consentono di spiegare perché il ragazzo, pur confermando la circostanza che il padre è un uomo che perde molto spesso la pazienza, che grida frequentemente, che offende e che "alza le mani", ciononostante cerchi – adducendo motivazioni che secondo il suo convincimento appaiono ovvie e ragionevoli – di giustificare il contegno dell'indagato». Una fotografia impietosa non solo di una famiglia, ma di una società intera che ha ancora molto, troppo da imparare. Ma soprattutto un segnale di allarme che non si esaurisce con l’arresto di Francesco Cannizzaro. Perché la violenza genera violenza. Ed è una spirale che promette solo barbarie.

fonte corrieredellacalabria.it

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