Morì per le botte ricevute, condannato a 18 anni

Morì per le botte ricevute, condannato a 18 anni

Per decenni ha massacrato fisicamente e psicologicamente la sua compagna. L'ha derisa, battuta, insultata, sbeffeggiata, picchiata. Con crudeltà le ha inflitto sevizie fisiche e morali che hanno avuto fine solo quando il corpo della donna, segnato da mille vecchi traumi, non ha retto all'ultimo colpo. Erano i primi giorni del maggio dello scorso anno quando Immacolata Rumi, nonostante i tentativi disperati dei sanitari, moriva a causa di un'emorragia interna provocata dalle botte ricevute. Oggi, a poco più di un anno da quel brutale pestaggio, per il compagno Domenico Laface è arrivata una pena esemplare. Accogliendo in pieno l'impianto accusatorio del pm Antonella Crisafulli, il gup Domenico Santoro ha condannato l'uomo a diciotto anni di carcere per maltrattamenti in famiglia aggravati dalla morte della persona offesa. Maltrattamenti che per Immacolata - ha svelato l'inchiesta -  erano pane quotidiano. Gli oltre trent’anni di convivenza con Laface sono stati per lei sinonimo di botte, insulti e umiliazioni. Lo sapevano i vicini che ascoltavano le urla e le liti che le sottili pareti del condominio di Croce Valanidi, alla periferia sud della città, lasciavano filtrare.

Lo sapevano o lo immaginavano amici, colleghi e parenti, che sul volto di Maria Immacolata vedevano regolarmente apparire lividi o segni – come riferito agli inquirenti dai mariti di due delle figlie – che la donna tentava maldestramente di dissimulare. Lo sapevano i figli – quelli ancora in casa e quelli che dall’abitazione di famiglia erano andati via – che per anni hanno assistito alle esplosioni di incontrollata violenza del padre. 
Sono state proprio le loro dichiarazioni a inchiodare l’uomo, dal quale hanno immediatamente preso le distanze e con il quale hanno rifiutato di avere qualsiasi tipo di contatto dopo aver appreso della morte di Immacolata. Una notizia incassata – annotava  il gip  già nell'ordinanza di custodia cautelare emessa un anno fa a carico di Laface– senza «eccessiva sorpresa». Quasi fossero ormai assuefatti alla violenza, con "una certa disperata rassegnazione ad un epilogo quasi annunciato incomprensibile in assenza di peculiari patologie" - annotavano gli inquirenti in sede di indagine - i figli della coppia non hanno esitato a raccontare in dettaglio il calvario di  Immacolata, picchiata con calci, pugni, a volte un bastone, regolarmente insultata e umiliata. «I miei genitori litigavano sempre per motivi stupidi – ha spiegato  quasi con rassegnazione una delle ragazze –. La situazione andava avanti così da anni. Mio padre andava su tutte le furie soltanto perché mia madre gli rispondeva». E Domenico Laface, ha sottolineato un’altra, era un uomo facilmente irritabile. «Tale irritabilità – ha riferito agli inquirenti – degenerava negli atti di violenza in trattazione a seguito delle frequenti discussioni che intercorrevano tra i miei genitori, discussioni che, per lo più, originavano da alcune gelosie di mia madre nei confronti del compagno che, comunque, in altre circostanze, la provocava apertamente con epiteti ingiuriosi. In alcune circostanze, l’uomo è ricorso anche a un’invettiva di carattere apertamente minatorio nei confronti della compagna, rendendola oggetto di epiteti quali “ti ammazzo” o “ti scanno”».
Storie di quotidiana abiezione, consumatesi sotto gli occhi dei più, ma che nessuno ha voluto o saputo vedere. Se non quando era ormai troppo tardi.


Fonte corrieredellacalabria.it

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