Referendum, le riflessioni dopo il voto di Filippo Savica

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L'affluenza altissima - oltre il 68% e il peso numerico di quello che è stato un super "No"quasi 20 punti di distacco ,sono i due elementi centrali di quella che per Matteo Renzi è una sconfitta epocale. Non solo politica ma anche e soprattutto personale. Una disfatta che peserà inevitabilmente anche sul futuro del leader del Pd che ha voluto personalizzare il referendum costituzionale, trasformandolo di fatto in un plebiscito su di sé. Un plebiscito che ha perso sonoramente, mettendo forse a rischio anche la possibilità di rientrare a breve sulla scena politica. Sia che si voti a giugno del prossimo anno, sia - scenario meno probabile - che la legislatura arrivi alla sua scadenza naturale nel 2018.
Di certo, c'è che l'esperienza di Renzi a Palazzo Chigi si è conclusa l'altra notte. A mezzanotte e mezza, per l'esattezza.
Dalle statistiche Nazionali la disfatta è stata compiuta dai giovani. Infatti il culmine della disfatta referendaria è proprio tra i «millennial», gli under 35. Più sono giovani, più sono contro Renzi: addirittura l'88% tra 18-24 anni ha votato No, percentuale che resta sempre maggioritaria rispetto al Sì anche per trentenni e quarantenni finché non si supera la soglia dei 55 anni, oltre al quale le proporzioni si invertono al crescere dell'età. Nella guerra generazionale tra ipergarantiti (gli over 60) sempre più benestanti rispetto al passato (si veda l'ultimo rapporto Censis) e i giovani sottopagati e sottoccupati, il Pd renziano è ormai visto come un nemico dei secondi.
L'immagine del premier boy scout, il giovane spavaldo che litigava con la vecchia ditta di D'Alema e Bersani («I giovani non scalcino per andare avanti», «Non sono un asino, quando voi eravate al governo io andavo ancora a scuola»), è evaporata in due anni di Palazzo Chigi, lasciando il posto al suo contrario: Renzi simbolo della vecchia politica, addirittura della «casta» contro cui proprio lui puntava a dipingersi come il giovane vendicatore. L'aereo presidenziale da 160 milioni di euro, le poltrone pubbliche distribuite agli amici, la Rai lottizzata dai renziani come nella migliore tradizione da prima Repubblica, i parenti dei ministri nei cda delle banche, gli sponsor tra finanzieri e establishment, i vecchi ras di partito riciclati al Sud, sono episodi che, rimbalzati e retwittati sui social network, hanno fatto a pezzi l'appeal di Renzi tra i giovani alle prese col decimo stage gratuito.
C'è poi il disagio reale, la disoccupazione giovanile che ha toccato numeri record, il flop di «Garanzia Giovani», il boom dei voucher rispetto alle assunzioni, gli stipendi più bassi d'Europa per i giovani. Segnali negatvi che non hanno scalfito la narrazione renziana di un'Italia dove «i giovani finalmente comprano casa e fanno un figlio» (disse magnificando il Jobs Act). Uno studio dettagliato di Infodata-Sole24Ore sul voto al referendum dimostra chiaramente che «al crescere della disoccupazione tra chi ha 18 e 29 anni, fonte Istat, aumenta anche la percentuale di voti contrari alla riforma costituzionale». Sono i giovani, sempre più in difficoltà, ad aver rottamato l'ex rottamatore. Lo stesso leader che, solo nel 2014, con le gloriose Europee del 40,8% era riuscito a fare del Pd il partito più votato dai giovani, sottraendo elettori under 30 persino al M5s. «Il 35,5 per cento degli under 24 ha votato per il partito renziano - certificava l'Ipsos -, contro il 25,4 di consensi per Grillo in quella fascia d'età». Un patrimonio bruciato in due anni.
W l'Italia dei giovani che dice no.